Francesco Forte, allievo di Einaudi con la chiave del personalismo
Flavio Felice
il presente articolo è stato pubblicato in parte da “Avvenire” il 2 gennaio 2022 e in parte da “Lettera150” il 3 gennaio2022
Nella notte tra il 31 dicembre 2021 e il 1 gennaio 2022 ci ha lasciati il professor Francesco Forte. Nato a Busto Arsizio l’11 febbraio del 1929, è stato accademico, politico, più volte ministro, giornalista, intellettuale curioso e raffinato. I suoi interessi spaziavano dalla scienza economica alla filosofia della politica, dalla storia delle idee alla Dottrina sociale della Chiesa. Professore emerito di Scienza delle finanze all’Università Sapienza di Roma, aveva ereditato la cattedra di Luigi Einaudi a Torino. Oltre alla cattedra, da Einaudi e dai suoi maestri: Benvenuto Griziotti e Ezio Vanoni, Forte aveva ereditato gli ideale di libertà e di giustizia. La libertà borghese, condita dei valori democratici e del libero mercato, quella libertà che diventerà il programma del suo impegno civile: liberale e socialista.
Con il presente articolo non si pretende presentare l’opera accademica e politica di un pensatore che ha profondamente segnato la vita italiana dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, ma più modestamente indicare alcuni contributi al pensiero economico e politico, così come chi scrive ha avuto modo di registrarli nella propria memoria, dopo aver conosciuto il prof. Forte e avviato con lui una proficua collaborazione.
Il pensiero sociale che emerge dagli scritti economici di Francesco Forte si rivela ispirato all’individualismo metodologico, anche se interpretato attraverso la chiave “personalista”. Indimenticabili per profondità le conversazioni che abbiamo avuto su Antonio Rosmini, che lui seppe mettere in dialogo con Ezio Vanoni e con Luigi Einaudi.
Uno dei tratti peculiari del contributo di Forte alla scienza economica e alla storia del pensiero economico, per il quale dal 2009 ho avuto l’onore e il piacere di collaborare con lui, riguarda il modo in cui comprese una specifica teoria economica basata sulla dottrina ordoliberale della Scuola di Friburgo: l’Economia Sociale di Mercato (ESM). Forte ha avuto il merito di cogliere nella dimensione politica e in quella giuridica i fattori di differenziazione di questa teoria economica rispetto ad altre della costellazione “neoliberale” del secondo dopoguerra.
Di fatto, Forte ha proposto un’interpretazione “einaudiana” dell’ESM, un’interpretazione abbastanza scettica nei confronti dei possibili “pasticci” – così ebbe modo di definirli lui stesso in un articolo pubblicato da “Il Foglio” il 26 agosto del 2008 – che potrebbero derivare da interpretazioni non coerenti con i presupposti filosofici ai quali fanno riferimento i padri ordoliberali e i teorici dell’ESM: rule of law, centralità della persona, concorrenza in quanto espressione del bene comune, sussidiarietà, pluralismo istituzionale.
In questo senso, riteniamo che il pensiero di Forte abbia facilitato una lettura critica degli ultimi sviluppi dell’economia finanziaria, il cui disordine non era considerato da Forte semplicemente un’anomala, ma la ragione stessa delle crisi. Egli era convinto che il disastroso crollo di alcune grandi banche fosse stato favorito da un’interpretazione troppo flessibile delle regole (la tanto lodata flessibilità della “common law” anglo-americana) da parte dei tribunali e delle autorità di regolamentazione.
Un ulteriore merito di Forte nell’interpretazione del modello di ESM ha riguardato la profonda convinzione che, oltre al paradigma economico-giuridico dei padri dell’ordoliberismo – si pensi ad esempio a Walter Eucken, Franz Bohm e Hans Grossmann Dörth –, fosse necessario considerare anche la dimensione sociologica, che fu introdotta in tale paradigma dall’economista tedesco Alfred Müller-Armack e dal collega svizzero-tedesco Wilhelm Röpke. In pratica, attraverso il contributo di Muller-Armack e di Röpke, Forte si è interrogato su quale potesse essere il rapporto adeguato tra la dimensione “sociale”, presente in ogni relazione umana e, dunque, anche in quella economica, e gli apriori di una scienza che ricorre al metodo individualista e personalista.
Un altro aspetto importante del lavoro di Forte, che mi ha visto direttamente coinvolto, ha riguardato la sua analisi istituzionale, alla luce della particolare filosofia civile espressa dall’insegnamento sociale cristiano. Pur consapevole che l’insegnamento sociale della Chiesa non abbia soluzioni tecniche da offrire, Forte ha riconosciuto in esso alcuni criteri importanti. In particolar modo, la sua riflessione si è concentrata sulle istituzioni economico-finanziarie comunitarie e globali, individuando, sulla scia della Caritas in veritate di Benedetto XVI, nei principi di solidarietà, di sussidiarietà e di poliarchia i pilastri sui quali edificare le istituzioni, per non cadere vittime di un’autorità politica globale, di Leviathan, questa volta non più nazionale, ma sovranazionale e onnipotente.
Quella di Francesco Forte, mi permetto di dire, è stata una vita vissuta nel nome di una “libertà normale”, quella che Alexis de Tocqueville ne L’antico regime e la rivoluzione identificava con la condizione dell’uomo libero: “Chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa è fatto per servire”. La libertà borghese, come scrivevamo poc’anzi: condita dei valori democratici e del libero mercato.
Per questa visione della libertà, Forte ha espresso un profilo di accademico, di politico e di giornalista-opinionista piuttosto unico nel nostro Paese. La carriera accademica di Forte è segnata dall’incontro con maestri che hanno scritto capitoli importanti della scienza economica degli ultimi cinquant’anni in Italia e nel mondo. Allievo di Benvenuto Griziotti, divenne assistente e supplente di Ezio Vanoni, chiamato all’Università della Virginia, divenne collega e amico dei futuri premi Nobel James Buchanan e Ronald Coase e nel 1961 fu scelto da Luigi Einaudi come suo successore alla cattedra di Scienza delle Finanze a Torino; è stato parlamentare e più volte ministro.
Data l’impossibilità di raccontare la vita di un personaggio come Forte in poche battute, come già scritto in precedenza, vorrei mettere in evidenza un ulteriore aspetto della sua elaborazione culturale, questa volta legato al contributo civile che ha offerto alla cultura politica del nostro Paese: il tentativo di ridefinire il socialismo italiano, per traghettarlo verso un liberal-socialismo, senza alcun complesso d’inferiorità nei confronti della sinistra marxista, semmai in posizione competitiva circa la fisionomia che avrebbe dovuto assumere la sinistra italiana nel contesto euro-atlantico.
Lo stesso Forte ci racconta nell’autobiografia A onor del vero (Rubbettino, 2017) che all’inizio del suo mandato alla segreteria del PSI, Bettino Craxi aveva assunto una dottrina “socialdemocratica” che prevedeva “l’alternanza nei governi di centrosinistra, cui sarebbe seguita una alternativa socialista”. Forte dissentiva da un tale schema, dal momento che avrebbe implicato una fusione con il PCI all’interno di un partito socialdemocratico. Al contrario, ci racconta Forte, il “destino del PSI” non poteva che essere quello di guidare un partito “liberal-socialista”, all’interno di un centrosinistra, ove fossero presenti le forze liberali e democristiane. In pratica, Forte considerava ormai arcaica l’alternativa socialdemocratica, all’interno di una coalizione di “laburismo welfarista”, condividendo, di fatto, il giudizio di Ralph Dahrendorf e giungendo ad affermare: “La socialdemocrazia era stata la fase necessaria per il passaggio riformista al liberalsocialismo”.
La dottrina del “liberalsocialismo”, che per Forte non si sarebbe dovuta confondere con il compromesso del “socialismo liberale”, si impantanò nella palude creata dai suoi stessi interpreti: “giovani ambiziosi e un po’ dissoluti… desiderosi di incarichi e onori, che aspiravano a far parte del potere, togliendo di mezzo Bettino, ovvero ‘il Cinghialone’”.
Ciò che appare di grande interesse e che ci preme far notare è il modo in cui Forte ha descritto la dottrina del liberalsocialismo che lo vide interprete protagonista. Una visione “liberatoria” che richiede un forte pluralismo al proprio interno. Un’idea della politica radicata nel reale e portata a guardare sempre avanti, andando incontro alla modernizzazione, che rompe con gli idoli e gli schemi costituiti e che fa proprio uno dei principi cardine del liberalismo einaudiano (ma non solo) che tanto ha segnato la vita intellettuale del prof. Forte: «In questo modo ragionare, a differenza che in altri, in questo modo di far politica, a differenza che in altri, in questo modo di perseguire un ideale, a differenza che in altri, c’è lo spirito di ricerca per errori e tentativi»
In conclusione, vorrei segnalare un ulteriore contributo del prof. Forte all’analisi economica, ribadendo l’impossibilità, in un articolo, di esprimere la ricchezza del suo lavoro. Mi riferisco all’analisi comparativa che egli ha svolto tra il modello einaudiano e quello keynesiano; un’analisi durata un’intera vita e sintetizzata nel volume Einaudi versus Keynes (IBL Libri, 2016). All’”uomo intero” einaudiano, Forte contrappone l’”uomo scisso” keynesiano; “Ehi, guardate! Il re è nudo!”, sembrerebbero queste le parole ingenue che Forte fa dire all’”uomo intero”, posto di fronte alle sofisticate simulazioni economiche dell’”uomo scisso”.
Il mondo di quest’ultimo è rigorosamente suddiviso in compartimenti stagni, dove il risparmiatore non è investitore, il consumatore non è risparmiatore e il proprietario non detiene il controllo. Un mondo in cui le regole della politica economica cozzano con quelle del “buongoverno”. Se per quest’ultimo valgono le norme del buon padre di famiglia e del piccolo proprietario, come il rispetto, la fiducia, la responsabilità, il sacrificio, la lungimiranza, per il primo invece bisognerebbe ricorrere a soluzioni artificiose, a terapie illusionistiche, in grado di ovviare alla inevitabile scarsità di risparmio e ottenere automaticamente il pieno impiego.
In questo quadro problematico, Forte ha individuato nella figura di due giganti del pensiero economico contemporaneo, Einaudi e Keynes, gli archetipi di due prospettive antropologiche che egli sintetizza, rispettivamente, con le felici espressioni: “uomo intero” e “uomo scisso”. Per Forte l’archetipo dell’economista dell’uomo scisso è John Maynard Keynes, al quale appartiene un’idea “tecnocratica” della democrazia e dell’intervento pubblico in economia, in netta contrapposizione con quella visione liberale che il Forte amava chiamare “liberalesimo”.
Il “paradigma tecnocratico” keynesiano dell’uomo scisso, per Forte, si basa su un presupposto teorico: l’homo oeconomicus, individuo incapace di trascendere il proprio tornaconto personale, condito da un non indifferente grado di perfettismo razionalistico e utilitaristico. In forza di tale presupposto, Keynes potrà scrivere: «Ho detto in un altro contesto che nel “lungo periodo” c’è uno svantaggio, saremo tutti morti. Ma avrei potuto dire ugualmente che c’è un grande vantaggio del “breve periodo”, che saremo ancora vivi». Ciò comporta che il lungo periodo non sia altro che una somma di tanti brevi periodi e massimizzare la funzione di utilità nel breve sia l’unica cosa che realmente debba interessare l’economista.
Al contrario, il “paradigma personalista” einaudiano dell’uomo intero si basa sul presupposto che ad agire sia sempre la persona: «Un complesso e misterioso miscuglio di istinti egoistici e di sentimenti morali e religiosi, di passioni violente e di amori puri». Per Forte, l’uomo intero di Einaudi è l’uomo comune, il quale si realizza quando è “signore della propria casa”, e quando esprime tale signoria con dignità, insieme ai propri affetti familiari. È proprio questo intreccio di affetti e di disponibilità dei beni che esprime la libertà dell’uomo intero. Il modello di economia che ne discende è quello della proprietà diffusa e del controllo dell’investimento da parte di chi lavora e risparmia. È evidente che l’uomo intero di Einaudi non considera neppure l’ipotesi che dopo di lui ci sia il diluvio: nel lungo periodo sopravvivranno i nostri figli.
Un secondo aspetto del “paradigma tecnocratico” keynesiano vede la concorrenza fra molti sostituita da quella fra grandi gruppi: è il «capitalismo delle grandi imprese industriali e finanziarie, governate da una tecnostruttura elitaria». In tal senso il modello keynesiano può dirsi liberista, in quanto interessa la dinamica di una particolare versione del mercato neocapitalistico, che, in nome dell’efficienza e della specializzazione, può dar luogo a fenomeni di monopolio.
Nel “paradigma personalista” einaudiano, invece, il modello di concorrenza è quello tipico del liberalismo delle regole o popolare ovvero, secondo la terminologia tedesca, dell’ordoliberalismo che si implementa nell’esperienza dell’economia sociale di mercato. Si tratta della concorrenza fra una miriade di piccoli operatori, i quali non si esclude che possano diventare medi e grandi. È questo il senso del “buongoverno” einaudiano, inteso come «quel modo saggiamente prudente di amministrare che usavano nelle faccende private».
Il quadro economico che ha descritto Forte rinvia ad un ideale economico in cui assume rilevanza l’elemento qualitativo del risparmio, dell’investimento e del consumo. Disoccupazione e sottoccupazione sono certo collegate alla carenza di risparmio e hanno a che fare anche con i consumi, ma per Einaudi risparmio-investimento-consumo sono in capo allo stesso soggetto: la persona. Parliamo del risparmio investito in progetti imprenditoriali ad alto valore aggiunto, i quali sono tali se incrociano un’alta produttività del lavoro: «La disoccupazione e il sottosviluppo si combattono mediante un’offerta dotata di reale produttività e quindi di profitto. Questo è il vero motore dello sviluppo. E ciò si ottiene accrescendo il capitale fisico e quello umano, quindi con il risparmio privato e pubblico che genera investimento, nei tempi lunghi e nel clima di concorrenza, che suscita energie imprenditoriali».
Il prof. Forte è stato un grande maestro per diverse generazioni di economisti italiani e stranieri, io non sono stato un suo allievo e i nostri studi si sono incrociati solo nel 2009, dopo la pubblicazione di un mio libretto sull’ESM. Fu in quella occasione che lui mi chiese di lavorare insieme alla pubblicazione di alcuni volumi antologici sull’ESM. Da quell’impegno sono nati tre volumi editi da Rubbettino: Il liberalismo delle regole (2010); L’economia sociale di mercato e i suoi nemici (2014); Moneta, sviluppo e democrazia (2020); oltre a ai tre volumi antologici abbiamo scritto alcuni articoli insieme e altri erano in cantiere.
È stato un onore poter incontrare un maestro come il prof. Francesco Forte, un piacere lavorarci insieme, una responsabilità che fa tremare le vene ai polsi proseguire quel lavoro.
Grazie di tutto professore e riposi in pace.