Quando i cattolici invocano il primato dello Stato
Luca Diotallevi – Flavio Felice
“Avvenire”, 5 gennaio 2022
In diversi interventi di esponenti qualificati del mondo cattolico è stata perorata la causa del primato delle organizzazioni e dei poteri politici sull’insieme delle istituzioni sociali. Di questo abbiamo scritto in un saggio pubblicato sul nuovo numero de “La Società. Rivista scientifica di Dottrina sociale della Chiesa” (4/2021); un numero speciale per celebrare i trent’anni di vita della rivista.
Un tale orientamento, che potrebbe ben essere definito “statalismo cattolico” o “confessionalismo cattolico”, è reso ancor più forte e meno facilmente identificabile in quanto – per limitarci all’ambito delle culture politiche – è stato declinato tanto in varianti di “destra”, quanto in varianti di “centro” o di “sinistra”.
Riteniamo che una tale posizione si riveli: (i) subalterna ad una ideologia che è stata dominate in area europeo-continentale per circa tre secoli, dalla metà del ‘600 alla metà del ‘900, (ii) votata ad una posizione reazionaria e verosimilmente impraticabile, (iii) in contrasto con la ripresa della grande tradizione della Chiesa operata dal Vaticano II.
Tra il XVI ed il XVII secolo, nell’area centro-occidentale dell’Europa continentale, con le forme dello Stato e con gli argomenti delle sue teorie, si afferma il principio di un primato della politica sulle altre istituzioni sociali, nell’ambito di un territorio chiaramente determinato; storicamente si tratta di un inedito.
Per un verso, lo Stato è sicuramente un prodotto della modernità e, per altro verso, esso tende a negarne diversi caratteri essenziali: la differenziazione per funzioni della società, la crescita del ruolo delle città, l’individuazione come crescente autocoscienza della libertà personale e della sua dignità. Tutto ciò è particolarmente evidente nella nozione di sovranità: absoluta, superiorem non recognoscens. Lo Stato è la negazione dell’ordine sociale moderno come ordine plurarchico, attraverso l’affermazione di un ordine sociale monarchico, fondato e regolato dal primato della politica, di cui nelle tragedie del Novecento diverrà drammaticamente chiaro il potenziale di minaccia anche alle condizioni minime dell’umanità.
La impraticabilità dello Stato in questa fase avanzata della modernizzazione appare evidente da un punto di vista sociologico. La globalizzazione, in quanto affermazione a livello globale del primato della differenziazione per funzioni della società sugli altri tipi di differenziazione sociale, rafforza alcuni equilibri e le corrispondenti morfologie sociali. Condizioni come queste, nel complesso, rendono letteralmente impossibile la sopravvivenza dello Stato, il quale invece era progetto politico di organizzazione della società, di subordinazione più o meno diretta alla politica di ogni istituzione e di ogni organizzazione e infine di assoggettamento della persona. Il declino dello Stato naturalmente non significa che gli eredi od alcuni spezzoni degli antichi complessi statuali non possano continuare a svolgere alcuni ruoli importanti tanto su scala locale quanto su scala globale.
L’autocoscienza cattolica e, dunque, lo stesso magistero debbono affrontare, tra le altre, una sfida molto impegnativa quando, in questo passaggio epocale, si trovano a riflettere di politica e di ordine sociale.
Un paio di esempi emblematici. Uno ci viene offerto dall’idea che la “dottrina sociale della Chiesa” sorgerebbe con la Rerum novarum. Non è difficile comprendere il significato ed il costo derivanti dal tener fuori da essa eventi come il Dictatus papae o autori come sant’Agostino. Un altro è la constatabile assenza della dichiarazione conciliare Dignitatis humanae dalle raccolte di documenti magisteriali rilevanti per la “dottrina sociale della Chiesa”. In essa viene chiaramente esposta la ragione teologica della inaccettabilità della realtà dello Stato come espressione del monopolio della politica sulla cura del bene comune. Nella stessa si compie la chiara opzione per il modello della libertà religiosa in alternativa tanto al modello confessionista quanto al modello della laicità.
L’idea della cura del bene comune, affidata primariamente al potere politico, contraddice il carattere molteplice di questo, oltre al fatto che del bene comune sia parte ineliminabile la destinazione sovrannaturale di ciascuna persona, di cui certo non si può occupare alcuna organizzazione storica. Rappresentanza e differenza sono implicazioni della nozione cattolica di bene comune, che già solo per questo è in antitesi con ogni paradigma di sovranità e di populismo.