Kabul e la contaminazione democratica
Flavio Felice
“Il Sole 24 Ore”, 18 agosto 2021
Se “Parigi val bene una messa”, Kabul avrebbe meritato almeno una novena, tanto è essenziale il destino della capitale afghana rispetto alle sorti dell’intero pianeta. Invece si è scelto a lungo di far finta di nulla, di considerare conclusa una battaglia che non ha mai fine, di guardare il mondo con gli occhi incantati e supponenti di chi considera la cultura democratica un lusso per pochi. Noi siamo i figli di Pericle, di Montesquieu di Kant, loro sono solo dei poveri incivili che dovranno trovare la loro strada, una strada che non può coincidere con la democrazia, perché la democrazia è un’invenzione dell’uomo occidentale e volerla esportare altro non sarebbe che l’ennesimo tentativo colonialista di voler imporre il proprio “fardello”. Considerazioni come queste abbondano e c’è anche chi si è spinto fino ad affermare che la caduta di Kabul non sarebbe altro che la sconfitta stessa della cultura politica democratica.
Intorno a queste considerazioni, sono riemerse anche alcune analisi che identificano la politica estera statunitense degli ultimi vent’anni con la cosiddetta “prospettiva neocon”, come se in vent’anni non si fossero avvicendate amministrazioni di diverso orientamento e come se esistesse una prospettiva neoconservatrice unica. Sin dal 2001 si è tentato di far coincidere la cosiddetta “dottrina Bush” con una fantomatica agenda neoconservatrice. I neoconservatori iniziarono ad occuparsi di politica estera in modo sistematico in seguito ad un articolo del 1979 della politologa della Georgetown University Jane J. Kirkpatrick. In questo articolo la futura delegata dell’Amministrazione Reagan alle Nazioni Unite intervenne per criticare la politica estera dell’allora Amministrazione Carter.
A questo livello si inserisce la riflessione neoconservatrice degli anni Ottanta incentrata sulla questione se sia o meno possibile esportare l’esperimento democratico. Joshua Muravchik ha sottolineato come la democrazia, esperimento non meccanicamente riproducibile in laboratorio, appare l’esito non necessariamente intenzionale di una miriade di eventi, situazioni, valori e principi che non possono essere meramente trapiantati. Il punto, dunque, non è l’esportazione della democrazia, bensì la predisposizione di una serie di iniziative culturali e di impegno economico che consentano ai principi ed ai valori che hanno reso possibile la nascita delle democrazie moderne di iniziare ad attecchire anche lì dove fino ad oggi sono prevalse logiche differenti. Qui, dunque, risiede il nocciolo della prospettiva neocon e la chiave di lettura per tentare di comprendere quale sia realmente stato il contributo di tale visione alla politica estera statunitense.
Nella prospettiva neocon in ambito di politica estera da sempre si confrontano diverse anime, da un lato abbiamo i cosiddetti “falchi” che considerano la lotta al terrorismo e la destabilizzazione dell’area mediorientale uno strumento di difesa nazionale; accanto ai falchi troviamo neoconservatori come ad esempio Michael Leaden, William Kristol, Norman Podhoretz per i quali, oltre ad un problema di sicurezza nazionale, ve ne sarebbe uno di tipo ideale: l’America combatte le dittature nel mondo perché questo sarebbe il suo destino. I protagonisti di queste due anime, che interpretano una posizione generalmente riconosciuta come “globalismo democratico”, sono anche chiamati “neo-reaganiani” o “post-neo-reaganiani” e si confrontano con un altro gruppo di neoconservatori che rappresentano invece una posizione conosciuta con il nome di “realismo democratico”.
Muravchik e Charles Krauthammer sono stati i maggiori esponenti di questo filone neoconservatore e partono dal presupposto che il destino dell’America non sia l’esportazione a tutti i costi della democrazia né tanto meno di essere il “poliziotto del mondo”. Il fatto che gli USA abbiano combattuto la prima e la seconda guerra mondiale e poi siano stati impegnati ed abbiano vinto anche la terza (la guerra fredda) non significa che siano condannati a scovare e a combattere i nemici della democrazia ovunque si trovino nel mondo: le guerre, compreso la guerra fredda, hanno rappresentato una triste parentesi nella storia statunitense.
In definitiva, è possibile esportare la democrazia? Anche in casa neocon la risposta non è univoca. Sarebbe più corretto chiedersi che cosa possono fare le società libere per influenzare lo sviluppo democratico. Tale processo di contaminazione democratica può essere condizionato dall’esterno, diffondendo una cultura del rispetto della persona umana che sia in grado di favorire conseguenze sul piano istituzionale e politico; tutto ciò che è mancato in vent’anni di politica estera occidentale in Afghanistan.