La chiave di lettura del professor Flavio Felice: “Papa Francesco si è recato dal rappresentante dell’invasore; è un atto di estremo realismo”
Non mi risulta che il Papa abbia espresso una linea geopolitica che imponga di vivere sotto il tacco di Vladimir Putin, questa semmai è la posizione dei teorici della “ragion di Stato” che considerano l’azione politica “dispensata” dal rispetto di qualsiasi morale”. Pacificatore e non pacifista, per nulla propenso all’indifferenza tra le posizioni in campo (di battaglia), il Santo Padre. Quella che è indubbiamente l’autorità religiosa, perciò diversamente politica, che più si esprime per la pace è interprete di un realismo che ha poco da spartire con la fredda Realpolitik e guarda piuttosto, consapevole che la realtà è superiore all’idea, a uno scenario planetario mutato radicalmente dalla interdipendenza della globalizzazione che è cosa altra “dall’internazionalizzazione, perché è un processo globale che supera l’autorità degli Stati e vanifica ogni tentativo di replicare le forme ottocentesche e novecentesche dell’esercizio del potere”. Il professor Flavio Felice, ordinario di Storia delle dottrine politiche presso l’Università del Molise e presidente del Centro Studi Tocqueville-Acton, ci descrive un Pontefice profondamente riformatore nel suo invocare e costruire una via diplomatica che, per far respirare l’Europa con tutti e due i suoi polmoni, l’occidentale e l’orientale, deve rimuovere la “cellula tumorale rappresentata dall’imperialismo putiniano”.
Professore, la ben poco protocollare visita all’ambasciata russa e, ancor più la scelta di fare del digiuno del Mercoledì delle Ceneri una grande domanda di pace, estendendo la proposta anche ai non credenti, ci dice che Papa Francesco è ancora una volta, come già in Siria, su una posizione originale. Pur non disconoscendo il dramma del popolo ucraino, per altro con significative percentuali di cattolici, vittima dell’invasione russa, il Santo Padre sembra voler dire che la guerra è una sconfitta per tutti. In tanti, più o meno velatamente, sembrano accusarlo di scarso realismo. Ma è davvero così?
In primo luogo, credo sia indispensabile intenderci sul significato del termine realismo. Non vorrei apparire sfuggente, ma il classico e proverbiale mezzo bicchiere d’acqua è più realistico vederlo mezzo pieno o mezzo vuoto? La realtà non è nelle cose in sé, ma negli occhi di chi le osserva e nella mente di chi le pensa; in una parola, nella cultura di chi le riflette. Ciò detto, dal mio personale punto di vista, i miei occhi vedono un paese e un popolo aggrediti e un dittatore invasore. Il dittatore, oramai a vocazione totalitaria, si chiama Vladimir Putin ed è l’invasore di una repubblica democratica che si chiama Ucraina.
In questo contesto si inserisce l’iniziativa del papa di recarsi dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede e l’invito a digiunare per la pace.
Il papa ha compiuto un gesto irrituale, rispetto al classico protocollo diplomatico, ma di grande significato simbolico. Il papa si è recato dal rappresentante dell’invasore; è un atto di estremo realismo, individuando immediatamente il responsabile di tale sciagura umanitaria e di devastazione culturale.
Di fronte a tale scenario, l’atto di iper realismo compiuto dal Papa credo evidenzi un’idea del potere inteso come servizio. È una dimensione che non è contemplata nei manuali di scienza della politica o di relazioni internazionali, ma attiene costitutivamente alla ragione sociale del pontificato. Nella fattispecie è la testimonianza di un “servo dei servi” che denuncia al mondo intero la brutalità di un’aggressione. Il popolo ucraino merita questi gesti di umiltà; l’avamposto di un paese aggressore presso una sede diplomatica sui generis come la Santa Sede stride con il buon senso; il gesto irrituale e iper realistico del Papa lo rende evidente a tutto il mondo.
Anche Kissinger scriveva che l’Ucraina dovrebbe essere un ponte e non un fronte. Un compito più per l’Europa che per la Nato. Che convenienza avrebbe l’Ue a seguire la logica del Papa, in questo senso?
Nel novembre del 2014 ero in Ucraina per tenere una serie di lezioni organizzate dalla Cattedra Jean Monnet, presso la Kiev Mohla National Academy, su Europa, libertà, inclusione e democrazia. Ho incontrato tanti giovani, tutti desiderosi di contribuire alle sorti del loro paese, in chiave liberale e democratica. Mi parlavano dell’Ucraina come io potrei parlare dell’Italia, i fratelli francesi della Francia e quelli statunitensi degli USA. Ricordavo l’intervento di Kissinger del 2014 e l’ho riletto in questi giorni. Sono le parole sagge di chi considera lo Stato una sorta di prigione, all’interno della quale sono tenuti ostaggi i cittadini che per sorte sono nati lì. Il paradosso, è che in un mondo come quello disegnato da Kissinger e dai fautori di un sistema di relazioni internazionali basato sull’anarchia tra Stati o, al massimo, imperniato sui blocchi di influenza, i veri colpevoli di questa situazione finiscono per essere quei giovani studenti. Quegli studenti sono colpevoli di essersi ribellati ad un destino che li vedeva ostaggi di uno Stato che, per arcana imperii, sarebbe dovuto rientrare all’interno di un determinato blocco di influenza geopolitica; il che avrebbe garantito a loro la sopravvivenza e a noi occidentali, sazi di democrazia e di libertà, il consueto aperitivo del venerdì sera, la pizza del sabato e la passeggiata domenicale.
Non mi risulta che il Papa abbia espresso una linea geopolitica che imponga a quegli studenti di vivere sotto il tacco di Putin, questa semmai è la posizione dei teorici della “ragion di Stato” che considerano l’azione politica “dispensata” dal rispetto di qualsiasi morale.
Il Papa sembra essere più consapevole di altri che la Russia rischia di essere consegnata nelle mani della Cina. E che questo sia un brutto scenario, per la Russia e per il mondo. Come si può mantenere viva l’idea di un’Europa che respira con tutti e due i suoi polmoni?
La Cina è una realtà geopolitica dalla quale nessuno può prescindere, compreso la Santa Sede. La globalizzazione, a differenza dell’internazionalizzazione, è un processo di interdipendenza globale che supera l’autorità degli Stati e vanifica ogni tentativo di replicare le forme ottocentesche e novecentesche dell’esercizio del potere. Pensare che si possa fare qualcosa a livello geopolitico per evitare che la Russia cada sotto l’influenza cinese significa ragionare con il paradigma statuale del secolo scorso. Il reggimento politico globale nel quale siamo inseriti come Europa non ha più punti di riferimento solidi. Si è passati dall’anarchia degli Stati sovrani, alla strategia dei blocchi d’influenza, dall’unipolarismo post ’89 al multipolarismo incerto nei suoi confini del post 11 settembre, ad un quadripolarismo, inevitabilmente provvisorio, dei nostri giorni. La Russia di Putin ha lanciato una sfida senza pari all’intero mondo liberale e democratico, rivendicando con fierezza la natura illiberale dell’autorità russa. Su questo sfida dipende il futuro delle nostre democrazie e la Cina gioca un ruolo molto importante, potendo risvegliare le minime, ma pur presenti avanguardie liberali presenti in Russia, indisponibili a cadere sotto l’ombrello d’influenza cinese. In definitiva, l’Europa, nella global polity dei nostri giorni, non può fare a meno della Cina, ma può mostrarsi ad essa così alternativa da attrarre sempre più il popolo dell’Est Europa nella propria sfera d’influenza. Tuttavia, questa eventualità è esattamente ciò che teme Putin ed il motivo per cui ha dichiarato guerra all’Ucraina: il polmone orientale dell’Europa, al momento, subisce la cellula tumorale di Putin.
Lucio Caracciolo, ma prima ancora Matteo Renzi, hanno indicato quanto sarebbe bene affidare alla Merkel il ruolo di incaricata speciale per la via diplomatica. D’altronde, proprio lei è stata sempre capace di non spezzare i fili del dialogo con Putin. È una strada che vale la pena perseguire?
La strada diplomatica è l’unica possibile via d’uscita al conflitto, ma la guerra è il fallimento della politica e la diplomazia è uno degli strumenti che il politico si trova a poter maneggiare quando apre la propria cassetta degli attrezzi. Con questo voglio dire che, quando arriverà il momento della diplomazia, l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel credo fermamente che sia la persona più accreditata a svolgere un simile compito, non tanto perché negli anni sia riuscita a mantenere i fili con Putin; da questo punto di vista non ci sarebbe miglior negoziatore del nostro Berlusconi; chi più di lui ha condiviso anche l’indicibile con il dittatore russo? La mia speranza è che quando giungerà il giorno del negoziato non ci sarà più Putin; non si può negoziare con Putin nel mezzo dei bombardamenti e con Kiev e altre città ucraine di importanza strategica sotto assedio. Come possiamo sederci al tavolo del negoziato con chi ha occupato un paese libero, con chi sta seminando orrore tra la popolazione e minaccia di invadere anche i paesi della Nato dell’area baltica? Oggi è il tempo della solidarietà al popolo ucraino, della resistenza del popolo ucraino all’aggressore russo e della ferma condanna al dittatore russo. Dobbiamo sperare che la resistenza tenga e che il nostro sostegno, sia in termini diretti sia in termini indiretti attraverso le sanzioni, alla fine possa risultare sufficiente a negare la fiera “volontà di potenza” del revanscismo imperialista russo. A quel punto potremo sederci al tavolo delle trattative di pace, avendo come interlocutore qualcuno che, come Alcide de Gasperi in occasione della conferenza di pace di Parigi del 1946, introduca il suo intervento affermando: “Tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”.
I cattolici possono essere ancora un’entità planetaria sui generis che custodiscono dal basso la pace o sono destinati ad essere risucchiati nelle logiche particolari dei vari nazionalismi?
I cristiani sono universalisti per loro natura. Cristo ha spezzato ogni legame di natura tribale, familiare e clanica; il nazionalismo, in fondo, non è altro che una versione aggiornata e in salsa europea del più classico dei tribalismi. Certo che i cristiani possono essere ancora agenti di unità tra gli esseri umani, andando oltre le barriere tribali, nazionalistiche e sovraniste, a condizione che si abbia contezza del fatto che il Cristianesimo ha significato e comporta quotidianamente una rivoluzione anche nella pratica politica. Le conseguenze sul piano politico dell’avvenimento cristiano assumono un carattere rivoluzionario, basti pensare al processo di umanizzazione che hanno subito le forme sociali quali ad esempio la famiglia e le istituzioni politiche. Non abbiamo più a che fare con divinità domestiche; è negata alla radice la forma imperiale che avanza pretese divine in ordine al potere che esercita. La famiglia, i regni e gli imperi, assumono i caratteri delle pure forme umane, sono mezzi a disposizione degli uomini e non fini ai quali piegare la libertà dell’uomo. Proprio perché mezzi, essi appaiono relativizzati rispetto al fine ultimo che è il bene della persona. Invero, talvolta tali mezzi possono rivelarsi inadeguati, perché frutto di conoscenza necessariamente limitata e soggetta all’errore, ovvero superati dal corso degli eventi e, per tale ragione, andrebbero abbandonati; il cristiano è politicamente un riformatore.